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Partir, c'est mourir un peu,
C'est mourir à ce qu'on aime:
On laisse un peu de soi-même
En toute heure et dans tout lieu.

C'est toujours le deuil d'un vœu,
Le dernier vers d'un poème;
Partir, c'est mourir un peu,
C'est mourir à ce qu'on aime.

Et l'on part, et c'est un jeu,
Et jusqu'à l'adieu suprême
C'est son âme que l'on sème,
Que l'on sème en chaque adieu:
Partir, c'est mourir un peu.

(E. Haraucourt)

O in altre parole:

So I watched the world tear us apart
A stoic mind and a bleeding heart
You never see my bleeding heart

And your light’s always shining on
And I’ve been traveling oh so long
I’ve been traveling oh so long.
(M.& S.)

Musica maestro:
http://m.youtube.com/watch?v=XFT29VuKLkw

It’s almost seven months since I left Switzerland. I’ve been 6 months in China, 3 and a half at the Taiji school and 2 and a half travelling.

After three months at the Taiji school I started feeling that I needed a change, that I wanted to get out of the “golden bubble” of the school, of the routine and from the security of the three granted meals a day. I set the first of August as a limit but due to lazyness and indecision I finally left only the 18th as my “Taiji brothers” left for a competition. The first stop was Guilin, the nearest city. The first night at the hostel was horrible, I felt lost and from the window instead of birds and butterflies there was a wall. My next stop were the rcie terraces of Ping An. Valleys and more valleys, mountains and more mountains shaped in centuries to impressive terraces. Small villages of carved wood houses set in lush woods. There I met Shlomit and Adi with whom I would have shared many kilometers.

At this rate my post will be way too long… From Guilin I made a 23 hours long jump to Dali in Yunnan to meet a friend lost for 13 years! In Dali I also met Shlomit and Adi again and Fabrizio and his artistic project, a little comune on the lake shore at 2000m. From Dali it has been mostly a very unconfortable and bumpy road up to Shangri-La at 3200m. We stopped twice, in Shaxi, a little wooden jewel and in Lijiang, a big touristy trap. Shangri-La is a tibetan outpost in a marvellous large valley with yaks and horses grazing free. I had arrived to Tibet! And from there up, up to Daocheng at 3400m on one of the roughest and most beatiful roads I’ve ever traveled. Daocheng is the entrance to the Yading nature reserve, one of the most impressive and beatiful places I’ve ever seen! Huge, enormous mountains, covered is snow, glaciers and emerald lakes. And it’s “more tibetan”! The two highest lakes are at almost 5000m, a breath-taking panorama (literally breath-taking!).

The journey goes on, unexpected, surprising, one gift after the other. Discovering, trying, doubting, tasting, questioning, finding new answers. And above all, the people and the stories, their stories, that make the path.I have met extraordinary people with inspiring visions and projects.

Back to the map… Daocheng is already in Sichuan. All the region on the border with Tibet is actually tibetan, even if it doesn’t belong to Tibet. And up we go! Up to Litang at 4100m. Here I met David and Alice, my new travel companions. With them it has been more Tibet. We went to visit a buddhist university, a city of 10,000 monks and nuns.
We tanked up with red robes, smiles, yak butter and blessings and rolled down to the low 400m of Chengdu. Said hello to pandas and the biggest Buddha in the world and after a radical cut with Sichuan and my hair we moved ahead to Wuhan and the legendary Yangze river. Wuhan was a challenge, getting around and especially getting out was an adventure. We landed finally in Hongcun, a precious little village in a sea of bamboo. And further to Hangzhou and finally to Shanghai. Almost 10 weeks of unforgettable impressions just flew.

The visa expiring date didn’t leave any place for doubts or laziness and so I got my ticket to my next culture shock, Thailand as a common tourist with my loving parents! Rivers of curry and a rain of temples!

Uno

Pensiamo sempre (e ancora) che mente, corpo ed emozioni siano divisi in compartimenti stagni, uno dentro all’altro e posizionati in luoghi ben precisi del corpo. Questo pensiero è limitante per la pratica delle arti marziali e, in generale, per tutto quel che riguarda la nostra salute. Considerare corpo, mente ed emozioni come entità separate ci porta a lavorarle separatamente, a non contemplare mai il quadro completo e a non poter per tanto approfondire o arrivare al nocciolo delle questioni.

Il Taichi è un ottimo esempio di come si possa, lavorando su uno dei livelli, interagire ed influenzare gli altri due. Può sembrare una contraddizione con quanto detto sopra, da una parte la necessità di lavorare e considerare tutti i piani dell’essere umano e dall’altra la scelta di un percorso “solo” fisico. Pare una contraddizione, appunto, se si pensa che i livelli siano separati. Il livello fisico è quello più semplice da lavorare, da “modellare” e da cui partire, secondo me.

Tutte le correzioni che ci vengono fatte dai nostri prof o dal maestro si possono leggere e interpretare su tutti e tre i livelli. Una persona dai movimenti bloccati, e trattenuti e molto probabile che sia timorosa e indecisa. La correzione base e costante del Taichi è “rilassa”, spalle, schiena, anche, respiro, non è anche la correzione base e costante che possiamo farci nella vita di tutti i giorni? “Rilassa”, mente, preoccupazioni, timori, pregiudizi, ansie. semplicemente “rilassa”.

In questa scuola si privilegia e si parte dal “semplice”, dal lavoro corporeo. Rare volte il discorso si amplia a campi più generici, alla vita e mai vengono toccati argomenti privati o fatte allusioni a tratti caratteriali o al vissuto personale, nonostante siano così ovviamente e palesemente correlati. Questa è un’altra cosa che apprezzo molto di questa scuola, l’umiltà e la discrezione. Il maestro non ha pretese di salvare nessuno, non si presenta come un guru e non ha una risposta a tutte le domande (o se ce l’ha si guarda bene dal dirlo!). Il collegamento mente/spirito/corpo raramente viene esplicitato nel lavoro delle arti marziali per rispetto all’allievo. Il compito di un istruttore è curare l’aspetto fisico, gli altri due livelli sono personali e non è più responsabilità dell’istruttore entrare in merito, tanto più che non avrebbe nemmeno realmente modo di influenzarli. Il cambio deve sempre partire da se stessi, nessuno ci può far cambiare e nessuno può fare il lavoro al posto nostro.

Si lavora sodo, e si lavora dalla base, dall’ABC della salute, il corpo fisico. Impariamo a camminare, a rilassarci, ad ascoltarci. Poi sta alla sensibilità di ognuno decidere per se stesso se vuole portare consciamente il lavoro al livello emotivo o spirituale, oppure semplicemente lasciare che il lavoro si sedimenti e fermenti e si assesti liberamente. Lavorare sulla flessibilità fisica, vuol dire aumentare di pari passo la flessibilità emotiva e quella mentale, lo stesso vale per la rapidità, il rilassamento, la forza.

Siamo un’unità, un organismo fatto a strati, visibili e non, considerarlo come tale e lavorare in questa direzione ci potrebbe, chissà, portare a riconsiderare anche il nostro rapporto con il prossimo e, su una scala ancor maggiore, con il pianeta, con i suoi cicli e le intime correlazioni tra ogni sua cellula. Imparare a pensare al corpo come un’unità, da una parte ci facilita il lavoro su noi stessi e, dall’altra parte, ci costringe a prenderci cura di ogni parte.

Oggi il mio sogno mi fa male. Lo sento nelle ginocchia, nel cuore, nella schiena, a ogni passo una fitta, a ogni passo le lacrime che premono e i muscoli che si tendono.

Una volta qualcuno mi ha detto che Kung-Fu vuol dire “uomo che diventa virtuoso attraverso il duro lavoro”. La virtù ancora non la vedo nemmeno da lontano, ma il duro lavoro si fa sentire, dentro e fuori. Stamattina mi ha preso lo sconforto, “non ce la faccio, non arriverò da nessuna parte, non son capace, anni di pratica per non riuscire nemmeno a fare correttamente le cose più basilari.” Eppure son ancora qua. Con le lacrime agli occhi, dopo un gelato e una siesta tornerò in palestra chiedendomi di cosa vivrò e cosa sarà della mia vita tra un paio di mesi e cercherò semplicemente di godermi i sorrisi dei miei compagni e di lasciar da parte le preoccupazioni, di combattere la solitudine che a volte affiora. Ho scelto una via solitaria, non c’è insegnante al mondo che possa fare il lavoro “sporco” al posto mio né gruppo che possa far tacere lo zoo che ho in testa.

Un altro giro di giostra, domani forse le ginocchia si saran dimenticate del peso che portano.

Una placida e pigra domenica è passata. Ci si sveglia sereni nella nostra piccola comune, si fa colazione silenziosi e sonnacchiosi, sorridendo agli occhi gonfi dei compagni e sapendo che torneremo tutti a sonnecchiare fino all’ora di pranzo. La pioggia battente invita a prendersi la giornata libera. Nel pomeriggio, dopo una serie di terribili film di kung-fu (un’altra scusa per non uscire dal letto), la pioggia cessa e tutti escono a prendere una boccata d’aria. Attoniti osserviamo un piccolo botolo di piume azzurre, un martin pescatore è caduto proprio davanti alla nostra porta. Preoccupazione, sorpresa, tenerezza, impotenza, dubbio, cosa fare? E poi consigli, idee, suggerimenti e rimproveri si accavallano. Lasciato sbollire il tormentone ho rapito la cesta e il piccolo e adesso dorme placido sulla mia scrivania. Faccio piano pure a scrivere sulla tastiera per non spaventarlo, più spaventata io per non saper cosa fare. Preoccupata per domani mi addormento pensando che ho una meraviglia del creato a due metri da me.

Dettagli

I giorni si susseguono, si fondono senza soluzione di discernimento. Mi chiedevo come fosse possibile che fossi così stanca e un compagno mi risponde che una settimana d’allenamento si sente. Una settimana? Com’è possibile? Ieri era martedì tutt’al più, dove sono finiti gli altri giorni? Le cicale, le rane, il temporale, gli allenamenti, le partite a carte… I giorni sono indistinguibili, amalgamati in una massa compatta da cui pochi dettagli si distaccano, una rana di colore diverso, un dolce nuovo, un abbraccio, una risata. La memoria non riesce a stare dietro a differenze così sottili e una settimana si concatena alla prossima in un fluire di microscopici dettagli. La vita, in fondo, è fatta di dettagli che ci sfuggono e che si confondono. Com’era il rubinetto dell’ultima casa dove ho vissuto? Di che colore la scritta sul barattolo di tè? 

Le giornate si susseguono, apparentemente tutte uguali eppure qualcosa è cambiato, qualcosa di più grande, di più sostanziale. Dovremmo sempre ricordare che l’insieme è formato da una miriade di minuti dettagli, perché ogni tassello ha la sua importanza, e per quanto il nostro intervento sul quadro generale possa sembrare infimo, il quadro è indubbiamente cambiato. 

I cambiamenti, tranne rare eccezioni sono di questo tipo, una somma di piccoli minuti interventi. 

Il Taichi lavora allo stesso modo, un lavoro presente, costante e che va in profondità. Ci si immerge in un modo minuto, un mondo delicato e sensibile dove ogni elemento va considerato e corretto e lavorato. Il lavoro sulle arti marziali è spesso frustrante, pare che non si arrivi mai ad aver imparato qualcosa, c’è sempre un elemento da aggiungere o uno da correggere. Ma è il lavoro minuto e duro che porta alla perfezione. 

C’è un momento, un preciso momento in cui senti che i pezzi del grande puzzle si mettono in ordine. E sai che la sei arrivato a casa. Per me questo momento è stato l’atterraggio in Cina. Un pensiero mi ha attraversato la testa ed è stato: “Ce l’ho fatta, sono arrivata!”. Questa sensazione di essere al posto giusto, nel momento giusto non mi ha abbandonata mai nelle due settimane passate in Cina. Ogni giorno sento più forte, più solida la convinzione di essere nel posto giusto. Possono sembrare solo vuote chiacchiere new age, ma l’iter che mi ha portata qua è stato lungo e travagliato, a volte doloroso, a volte molto doloroso. E per questo ancora più fortemente sento di star rinascendo. Nessun albero può crescere senza solide radici, nessuna radice può ancorarsi senza una generosa corona. Il Taichi è la terra in cui possono affondare le radici e far prosperare il mio tronco e slanciare rami e moltiplicare le foglie.

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Numeri

Dal 9 aprile ad oggi ho preso 8 treni, 6 autobus e 4 aerei, un auto e una moto, per un totale approssimativo di 84 ore di viaggio netto, ho dormito in 13 posti diversi, almeno metà dei quali erano in movimento, e ho percorso approssimativamente 10’600 km in 22 giorni.

Sul treno da Sofia a Istanbul, stanca morta, ma non voglio dormire. Voglio scrivere e non staccare gli occhi dal finestrino, anche se oramai è buio, per non perdere nemmeno un metro di questo paese che passa troppo in fretta, di cui non posso sentire gli odori. Il paesaggio uscendo da Sofia si fa, se possibile, ancora più desolante della capitale. Enormi complessi industriali abbandonati, relitti di colonie di lavoratori, campagne meravigliose e deserte. All’orizzonte ci segue una catena montuosa che mi ha sorpreso con le sue cime innevate già nella capitale. Attraversiamo larghe vallate verdi e fitti boschi di conifere. La vita sfugge al tramonto, un pastore che riporta le sue pecore all’ovile, una coppia passeggia su una strada sterrata dimostrandomi una volta più che il mondo è molto più piccolo di quel che pare. Gli stessi desideri, gli stessi aneliti, gli stessi tentativi di trovare un angolo di felicità, di dare un senso a questa corsa. E ancora stazioni abbandonate, mezze distrutte, grandi edifici di indubbia estetica sovietica tenuti assieme con fil di ferro e nastro adesivo, rattoppati con il cartone.

Il treno prevede solo un vagone letto diretto a Istanbul. Fare il biglietto a Sofia è stata un’impresa per cui son grata d’aver sofferto i miei anni di russo all’università. Ci ho provato la prima volta in un’agenzia di viaggi in centro, l’insegna diceva “rivendita biglietti autobus e treno”. L’impiegata sfoggiava quell’impagabile voglia di lavorare tipicamente sovietica e forse slava, quel non so ché di noia, fatica e malumore che ti porta a volerti scusare per aver osato scomodarli. Mi dice che non sa gli orari, che può farmi il biglietto solo fino a Halkali perché ci sono lavori nell’ultimo tratto. Non sa nulla di autobus, e no, nemmeno la collega dietro al bancone “bus transport” non sa niente, glielo posso chieder da sola se non ci credo. Esco con i miei 20 chili di bagaglio e penso che dovrei essere in Europa. E mi chiedo a chi sia venuto in mente di poter unire e unificare l’Europa. Credo che non avesse viaggiato molto. Anche cambiare gli ultimi dinari serbi s’è rivelata una missione impossibile. Nessuna banca li accettava. Ce l’ho fatta in un baracchino per la modica commissione di 5 euro. Non contenta ho deciso di voler cambiare anche alcuni leva bulgari in lire turche. Ci ho messo cinque banche e molti volti sorpresi della richiesta. È come se ai tempi prima dell’euro in Svizzera non avessero potuto cambiare dei marchi tedeschi.

Ho percorso tre volte il viale che va dalla stazione al centro, l’ultima passando per un meraviglioso mercato locale, molto locale. Mondi paralleli in strade parallele. Banche internazionali, negozi di marche mondiali, multinazionali che si mangiano il panorama urbano dall’atlantico al Bosforo. Rinuncio a Sofia, sono stanca dalla notte in bianco passata in treno (con annesso tentativo di contrabbando di sigarette), di non trovare un senso a questa città troppo grande. Sembra che la terra sotto di essa stia lievitando, e la città si tenga stretta con larghi punti di sutura. Sono riuscita a provvedere a tutte le mie necessità primarie ma non riesco a rasserenarmi. Credo che non mi piaccia, non sono tranquilla, non mi trasmette serenità. È la prima volta da quando son partita che non mi sento a mio agio, che vorrei avere un compagno di viaggio con cui fare battute stupide e scacciare questo sapore di polvere con sferzanti battute politicamente scorrette. E quindi per colmo d’assurdità mi rifugio nella stazione. Ovviamente ci sono arrivata con un’ora d’anticipo, un po’ per la stanchezza, un po’ per il disagio e un po’ per mania ereditata da mio nonno. Il tabellone mi dice che devo recarmi al binario 6i. Nel sottopassaggio la numerazione dei binari è inintelliggibile: 1-2, poi 3-4-VII g-t. E via dicendo, numeri romani, arabi e lettere mischiate. Il binario era il numero 6 e basta, ma nessun tabellone funzionava.

Sul treno tranne tre donne turche apparentemente benestanti siamo solo stranieri. Il controllore mi concede uno scomparto tutto per me, di fianco ad una coppia svizzera. Il treno finalmente parte. Ci sono poche cose che amo quanto questo momento di quando hai la certezza di partire. E finalmente mi posso rilassare, stendere le gambe, lasciar colare il paesaggio e lasciarmi prendere dall’emozione di andare in Turchia.